mercoledì 15 aprile 2020

Morte e speranza

Prendo spunto dall'intervento del professor Leonardo Lugaresi (del quale consiglio di leggere anche un altro intervento sulla questione del proselitismo) per proporre una mia piccola riflessione.


Che la morte sia la vera magna quaestio sulla quale s'infrange ogni pretesa risolutiva, cioè auto-redentiva, della modernità – intesa non cronologicamente ma kairologicamente, cioè come connotazione d'una epoké chiusa ad ogni prospettiva ultratemporale –, è talmente evidente, che non mette conto affannarsi a dimostrarlo.

Infatti, è impensabile la raffigurazione d'un uomo "moderno" alla maniera dell'iconografia barocca del santo con un teschio sul tavolo di meditazione e scrittura. Mentre quest'ultimo ne trae ispirazione e orientamento esistenziale, il primo s'affannerebbe a guardare altrove. Chi parlasse all'uomo d'oggi seriamente della morte – connettendola per giunta al giudizio e ad una possibile pena eterna – rischierebbe quale saevus Solon di fare la fine del Grillo Parlante.

E forse è per questo che, fatte salve le solite lodevoli eccezioni, gli uomini di Chiesa ne parlano sempre meno, persino ai funerali.

Insomma, di morte e di malattia, non in modo astratto e teorico, ma nel modo specifico per quel che riguardi qui e ora, nessuno o quasi vuol sentir parlare, come osserva il professor Lugaresi, il cui pensiero condivido totalmente.

Ma perché? Voglio dire, qual è il perché profondo, cioè proprio e non semplicemente relativo alla psicologia del singolo, di tale atteggiamento?

L'uomo moderno è, secondo Eric Voegelin, più o meno affetto da libido dominandi l'ordine delle cose, la sua stessa natura e il suo proprio destino. Lo sguardo diretto alla morte o anche solo alla malattia, che le riconosce come destino ineluttabile – noi sappiamo, nell'eone del peccato originale –, frustra questa sua libido.

Così appare evidente che la pretesa gnostica di totale emancipazione e quindi di volontarismo-soggettivismo etico e cognitivo non sta in piedi e non può soddisfare davvero, non risolve in alcun modo l'equazione esistenziale. La morte rimane lì con la sua falce, a rendere tutto provvisorio e del domani nessuno è davvero padrone e certo.

L'unico rimedio che può rendere tollerabili il pensiero e la realtà della morte è la speranza. Da subito l’apostolo Paolo – come ricorda Benedetto XVI nella sua mirabile enciclica Spe salvi del 30 novembre 2007 – scriveva agli Efesini (2,12) che prima di Cristo e della fede in Lui l'esistenza era “senza speranza e senza Dio nel mondo”. Tanto che – ricorda ancora papa Benedetto nello stesso paragrafo 2 dell'enciclica – i non credenti o credenti in false religioni e deità non potevano che concludere: “In nihil ab nihilo quam cito recidimus” [Dal nulla, nel nulla, quanto presto ricadiamo].
Certo il mondo classico – diversamente da quello orientale e dai paganesimi aborigeni animisti, che rispondevano alla magna quaestio dissolvendo l'individuo in un indistinto panteistico pleroma, negandogli ogni significato e valore propri –, al di là delle boutades epicuree, quando non intuì con i filosofi noetici, massime Platone, la possibilità d'una sopravvivenza non lemurica ma giudicata oltre la morte, si sforzò di teorizzare una risposta virile, per la quale l'uomo eroico affrontava impavido il suo destino mortale senza perdere di vista valori e princìpi che ne fondavano la dignità. Ma è evidente che questa prospettiva poteva essere di pochi o pochissimi, per cui la maggioranza si abbandonava ad una vita rassegnata o edonistica, cercando solo nel collettivo, la civitas e la sua disciplina severa, un senso.

Ora, di quale speranza parliamo come rimedio esistenziale alla realtà della malattia e della morte?
Benedetto XVI parla d'una speranza affidabile, cioè quella che ontologicamente è fondata sulla fede, che ne garantisce la certezza (cfr. Ebrei 11,1). Perciò la profonda crisi di fede, che affligge il mondo man mano che si fa più moderno nel senso dell'accantonamento degli immortalia et semper manentia, porta immancabilmente alla crisi della speranza, tanto quanto si secolarizza. Cioè, non è che il mondo privo di fede non speri – la speranza è un moto naturale dell'animo umano –, ma spera male. Colloca la propria speranza dove non può essere affidabile, cioè al di qua dell'orizzonte temporale – coerentemente con la propria quidditas – e quindi nel nulla. Come dice Chesterton, l'attuale modalità nichilista è l'impazzimento, non la negazione della speranza cristiana. Questa invece assicura, secondo Josef Pieper, una speciale incolumità, non solo spirituale ma anche psico-fisica, che viene spiegata da Viktor Frankl dal lager nazionalsocialista e da Solzenicyn dal GULag comunista: “Chi ha un perché, sopporta ogni come", e quindi, come entrambi ricordano, i credenti furono quelli sopravvissuti di più e meglio, senza corrompersi, pur condividendo le stesse condizioni estreme, se non più estreme, degli altri prigionieri.

Ma quando la speranza si secolarizza o si rifugia nelle grandi narrazioni utopiche che hanno caratterizzato gli ultimi tre secoli prima di questo – la cui vanità non è solo nella loro irrealizzabilità (utopiche, appunto) ma nel fatto che non è una speranza per me, se esse sono di là da venire nel saeculum, e cioè quando io non ci sarò più, o comunque dove non rimarrò definitivamente –, essa non risolve la mia magna quaestio ovvero si dirige naturalmente verso il benessere psico-fisico-sociale. Questa versione individualistica della speranza secolarizzata, la più attuale, da un lato comporta il terrore per le malattie e per le condizioni di vita precarie e disagiate, e soprattutto per la morte. Ma dall'altro lato, in modo solo apparentemente contraddittorio (si pensi all'aborto come rifiuto di un figlio, e alla procreazione artificiale come desiderio di un figlio ad ogni costo, entrambe le cose esigite dal pensiero secolarista), comporta la desiderabilità della morte, quando la prosecuzione della vita è troppo dura per chi la vive o per chi gli "vuole tanto bene".

Ma questo tipo di speranza è destinato ad esser deluso: non può darsi un'esistenza in condizioni di perfetto e perenne benessere, che fra l'altro non dipende solo da noi stessi. Di qui, la disperazione latente nel nostro tempo, che si consuma in angosce, in nevrosi  e poi in rabbia e violenza. Un'umanità che non è mai stata tanto sazia – si dice che un miliardo di persone vivano sotto la soglia della povertà: ebbene non è mai successo nella storia che solo un uomo su sette vivesse sotto tale soglia – e tanto libera di fare quel che vuole, e contemporaneamente, per dirla con il compiantissimo cardinale Carlo Caffarra, tanto disperata.

Il nichilismo esistenziale offusca in fondo ogni orizzonte e arricchisce i produttori di Prozac.
All’opposto, la speranza che nasce dalla fede mette nelle nostre mani il destino proprio. Nessuno può ucciderci l'anima senza il nostro consenso, nessuno, neanche un virus, può privarci del premio finale di felicità completa che dà senso all'intera vita. Non possono toglierci nulla. Questa speranza che è teologale, perché saldamente fondata in Dio e nella fede in Lui, allieta e rende relativamente felice anche l'esistenza in hac lacrimarum valle, come lo stesso Gesù ci ha annunciato: il centuplo sin da subito (Marco 10, 29-30). Non possiamo sempre evitare la malattia e alla fine morte, che temiamo tanto, troppo. Certo possiamo sempre evitare, con la grazia di Dio, il peccato, che invece non temiamo più. E quando una cosa dipende da noi – ribadisco con l'aiuto della grazia, che però è sicuro che non mancherà – c'impegna sì, ma ci lascia sereni, mai disperati e disperanti.

Noli timere pusillus grex (Luca 12,32): non c'è nulla di cui aver paura. Ricominciamo da qui: dalla chresis cristiana che, se davvero vissuta e detta, non potrà non convincere il mondo moderno in crisi davanti alla magna quaestio della morte e della malattia che si ripropongono con particolare aggressività, specialmente mediatica.

Giovanni Formicola

Illustrazione: Sebastiano Ricci (1659–1734), Allegoria del Tempo, della Speranza e della Morte.

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