Prendo spunto dall'intervento del professor Leonardo Lugaresi (del quale consiglio di leggere
anche un altro intervento sulla questione del
proselitismo) per proporre una mia
piccola riflessione.
Che la morte sia la vera magna quaestio sulla quale s'infrange ogni
pretesa risolutiva, cioè auto-redentiva, della modernità – intesa non
cronologicamente ma kairologicamente, cioè come connotazione d'una epoké chiusa ad ogni prospettiva ultratemporale –, è talmente
evidente, che non mette conto affannarsi a dimostrarlo.
Infatti, è impensabile la raffigurazione d'un uomo "moderno" alla
maniera dell'iconografia barocca del santo con un teschio sul tavolo di
meditazione e scrittura. Mentre quest'ultimo ne trae ispirazione e
orientamento esistenziale, il primo s'affannerebbe a guardare altrove.
Chi parlasse all'uomo d'oggi seriamente della morte – connettendola per
giunta al giudizio e ad una possibile pena eterna – rischierebbe
quale saevus Solon di fare la fine del Grillo Parlante.
E forse è per
questo che, fatte salve le solite lodevoli eccezioni, gli uomini di
Chiesa ne parlano sempre meno, persino ai funerali.
Insomma, di morte e di malattia, non in modo astratto e teorico, ma
nel modo specifico per quel che riguardi qui e ora, nessuno o quasi vuol
sentir parlare, come osserva il professor Lugaresi, il cui pensiero
condivido totalmente.
Ma perché? Voglio dire, qual è il perché profondo, cioè proprio e non
semplicemente relativo alla psicologia del singolo, di tale
atteggiamento?
L'uomo moderno è, secondo Eric Voegelin, più o meno affetto
da libido dominandi l'ordine delle cose, la sua stessa natura e il suo
proprio destino. Lo sguardo diretto alla morte o anche solo alla
malattia, che le riconosce come destino ineluttabile – noi sappiamo,
nell'eone del peccato originale –, frustra questa sua libido.
Così appare evidente che la pretesa gnostica di totale emancipazione e
quindi di volontarismo-soggettivismo etico e cognitivo non sta in piedi
e non può soddisfare davvero, non risolve in alcun modo l'equazione
esistenziale. La morte rimane lì con la sua falce, a rendere tutto
provvisorio e del domani nessuno è davvero padrone e certo.
L'unico rimedio che può rendere tollerabili il pensiero e la realtà della morte è la speranza. Da subito l’apostolo Paolo – come ricorda Benedetto XVI nella sua
mirabile enciclica Spe salvi del 30 novembre 2007 – scriveva agli
Efesini (2,12) che prima di Cristo e della fede in Lui l'esistenza era
“senza speranza e senza Dio nel mondo”. Tanto che – ricorda ancora papa
Benedetto nello stesso paragrafo 2 dell'enciclica – i non credenti o
credenti in false religioni e deità non potevano che concludere: “In
nihil ab nihilo quam cito recidimus” [Dal nulla, nel nulla, quanto
presto ricadiamo].
Certo il mondo classico – diversamente da quello orientale e dai
paganesimi aborigeni animisti, che rispondevano alla magna quaestio
dissolvendo l'individuo in un indistinto panteistico pleroma, negandogli
ogni significato e valore propri –, al di là delle boutades epicuree,
quando non intuì con i filosofi noetici, massime Platone, la possibilità
d'una sopravvivenza non lemurica ma giudicata oltre la morte, si sforzò
di teorizzare una risposta virile, per la quale l'uomo eroico
affrontava impavido il suo destino mortale senza perdere di vista valori
e princìpi che ne fondavano la dignità. Ma è evidente che questa
prospettiva poteva essere di pochi o pochissimi, per cui la maggioranza
si abbandonava ad una vita rassegnata o edonistica, cercando solo nel
collettivo, la civitas e la sua disciplina severa, un senso.
Ora, di quale speranza parliamo come rimedio esistenziale alla realtà della malattia e della morte?
Benedetto XVI parla d'una speranza affidabile, cioè quella che
ontologicamente è fondata sulla fede, che ne garantisce la certezza
(cfr. Ebrei 11,1). Perciò la profonda crisi di fede, che affligge il
mondo man mano che si fa più moderno nel senso dell'accantonamento degli immortalia et semper manentia, porta immancabilmente alla crisi della
speranza, tanto quanto si secolarizza. Cioè, non è che il mondo privo
di fede non speri – la speranza è un moto naturale dell'animo umano –,
ma spera male. Colloca la propria speranza dove non può essere
affidabile, cioè al di qua dell'orizzonte temporale – coerentemente con
la propria quidditas – e quindi nel nulla. Come dice Chesterton,
l'attuale modalità nichilista è l'impazzimento, non la negazione della
speranza cristiana. Questa invece assicura, secondo Josef Pieper, una
speciale incolumità, non solo spirituale ma anche psico-fisica, che
viene spiegata da Viktor Frankl dal lager nazionalsocialista e da
Solzenicyn dal GULag comunista: “Chi ha un perché, sopporta ogni come", e
quindi, come entrambi ricordano, i credenti furono quelli sopravvissuti
di più e meglio, senza corrompersi, pur condividendo le stesse
condizioni estreme, se non più estreme, degli altri prigionieri.
Ma quando la speranza si secolarizza o si rifugia nelle grandi
narrazioni utopiche che hanno caratterizzato gli ultimi tre secoli prima
di questo – la cui vanità non è solo nella loro irrealizzabilità
(utopiche, appunto) ma nel fatto che non è una speranza per me, se esse
sono di là da venire nel saeculum, e cioè quando io non ci sarò più, o
comunque dove non rimarrò definitivamente –, essa non risolve
la mia magna quaestio ovvero si dirige naturalmente verso il benessere
psico-fisico-sociale. Questa versione individualistica della speranza
secolarizzata, la più attuale, da un lato comporta il terrore per le
malattie e per le condizioni di vita precarie e disagiate, e soprattutto
per la morte. Ma dall'altro lato, in modo solo apparentemente
contraddittorio (si pensi all'aborto come rifiuto di un figlio, e alla
procreazione artificiale come desiderio di un figlio ad ogni costo,
entrambe le cose esigite dal pensiero secolarista), comporta la
desiderabilità della morte, quando la prosecuzione della vita è troppo
dura per chi la vive o per chi gli "vuole tanto bene".
Ma questo tipo di speranza è destinato ad esser deluso: non può darsi
un'esistenza in condizioni di perfetto e perenne benessere, che fra
l'altro non dipende solo da noi stessi. Di qui, la disperazione latente
nel nostro tempo, che si consuma in angosce, in nevrosi e poi in rabbia
e violenza. Un'umanità che non è mai stata tanto sazia – si dice che un
miliardo di persone vivano sotto la soglia della povertà: ebbene non è
mai successo nella storia che solo un uomo su sette vivesse sotto tale
soglia – e tanto libera di fare quel che vuole, e contemporaneamente,
per dirla con il compiantissimo cardinale Carlo Caffarra, tanto
disperata.
Il nichilismo esistenziale offusca in fondo ogni orizzonte e
arricchisce i produttori di Prozac.
All’opposto, la speranza che nasce dalla fede mette nelle nostre mani
il destino proprio. Nessuno può ucciderci l'anima senza il nostro
consenso, nessuno, neanche un virus, può privarci del premio finale di
felicità completa che dà senso all'intera vita. Non possono toglierci
nulla. Questa speranza che è teologale, perché saldamente fondata in Dio
e nella fede in Lui, allieta e rende relativamente felice anche
l'esistenza in hac lacrimarum valle, come lo stesso Gesù ci ha
annunciato: il centuplo sin da subito (Marco 10, 29-30). Non possiamo
sempre evitare la malattia e alla fine morte, che temiamo tanto, troppo.
Certo possiamo sempre evitare, con la grazia di Dio, il peccato, che
invece non temiamo più. E quando una cosa dipende da noi – ribadisco con
l'aiuto della grazia, che però è sicuro che non mancherà – c'impegna
sì, ma ci lascia sereni, mai disperati e disperanti.
Noli timere pusillus grex (Luca 12,32): non c'è nulla di cui aver
paura. Ricominciamo da qui: dalla chresis cristiana che, se davvero
vissuta e detta, non potrà non convincere il mondo moderno in crisi
davanti alla magna quaestio della morte e della malattia che si
ripropongono con particolare aggressività, specialmente mediatica.
Giovanni Formicola
Nessun commento:
Posta un commento