[…] alla fine dell’Antichità, i cristiani, che vivevano in una cultura alla quale dovevano molto, la trasformarono dall’interno e la permearono di uno spirito nuovo. […] per dar vita a un’autentica civiltà cristiana. Con le imperfezioni inerenti a ogni opera umana, fu l’occasione di una riuscita sintesi fra la fede e la cultura.
Ai nostri giorni, questa sintesi è spesso assente e la rottura fra il Vangelo e la cultura è “senza dubbio il dramma della nostra epoca” (Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 20). Si tratta di un dramma per la fede perché, in una società in cui il cristianesimo sembra assente dalla vita sociale e la fede relegata nella sfera del privato, l’accesso ai valori religiosi diviene più difficile, soprattutto per i poveri e per i piccoli, cioè per la grande maggioranza del popolo, che impercettibilmente si secolarizza, sotto la pressione dei modelli di pensiero e di comportamento diffusi dalla cultura dominante. L’assenza di una cultura che li sostenga impedisce a questi piccoli di accedere alla fede e di viverla pienamente. […]
In questa fine di secolo è fondamentale riaffermare la fecondità della fede nell’evoluzione di una cultura. Solo una fede fonte di decisioni spirituali radicali è capace di agire sulla cultura di un’epoca. Così, l’atteggiamento di san Benedetto, un patrizio romano che abbandonò una società invecchiata e si ritirò nella solitudine, nell’ascesi e nella preghiera, fu determinante per la crescita della civiltà cristiana.
Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti all’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, del 14-3-1997
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