sabato 13 marzo 2021

Mons. Gaetano Pollio. Croce d'oro tra le sbarre.

                                                                                    



                    AI FRATELLI SENZA DIO

                    Affinché nelle tenebre dell’errore
                    e degli orrori risplenda loro la
                    Luce…




Basterebbe questa sua dedica – posta in esergo al libro, edito dal PIME con lo stesso titolo di questo ricordo – per sintetizzare la vicenda terrena di Mons. Gaetano Pollio, già Arcivescovo Metropolita di Kaifeng in Cina e Arcivescovo Primate di Salerno, nel trentennale del suo Dies natalis, il 13 marzo del 1991.

Un successore degli Apostoli cioè, memore dell’essentia del consacrato: un uomo di Dio, che vive nel mondo senza essere del mondo; che spende la sua vita per rischiarare le tenebre dell’errore e degli orrori, con la Luce di Chi è via, verità e vita; che vive nella sua carne la Passione di Cristo, testimoniandoLo fino alla reclusione, avvenuta il 1° aprile 1951, “perché ostacolavo nella mia arcidiocesi il nuovo movimento della chiesa nazionale [scismatica, prona alle disposizioni del partito comunista cinese]”.


L’8 ottobre 1951 varcava la frontiera di Hong Kong, portando con sé la croce che era appartenuta al suo predecessore, Mons. Antonio Barosi. “Essa mi ricorda l’olocausto cruento di un martire, mi ricorda il calvario di pene inflittemi da coloro che vogliono abbattere e distruggere la Croce di Cristo”.

Il vero motivo della persecuzione fu la “riforma” che il governo voleva imporre a noi cattolici. Nel settembre del 1950 questa riforma fu imposta a tutti i protestanti della Cina. Vi erano in Cina 162 denominazioni protestanti che, seminando le loro erronee dottrine e generando una vera confusione di idee, ostacolavano il nostro lavoro apostolico… Ebbene tutti i protestanti della Cina vergognosamente crollarono ai piedi del governo, accettando quella riforma, che li avrebbe condotti all’apostasia della loro fede”.

Nel rivolgersi ad “un cosiddetto vescovo” della chiesa anglicana canadese, gli disse: “Tu hai firmato contro Cristo”. “Quel falso vescovo fissandomi mi disse: - Non siamo come voi sacerdoti cattolici: noi abbiamo moglie e figli -. “Per amor di Cristo, gli risposi, bisogna rinunziare alla moglie e ai figli”.

L’8 gennaio 1951, davanti a dieci funzionari del governo, Mons. Pollio dichiarò solennemente: “…se un sacerdote, una suora o un cristiano aderirà, io li punirò con le censure canoniche; finché avrò un briciolo di libertà, mi adopererò con tutti i mezzi a mia disposizione e con tutta la mia autorità per ostacolare nella mia provincia ecclesiastica e nella mia arcidiocesi il sorgere ed il formarsi della chiesa nazionale indipendente scismatica”.

Immune da ogni irenismo e rispetto umano, a proposito della sua detenzione in carcere dirà “ero lieto di offrire la vita per i miei fedeli e dimostrare alle masse pagane che i missionari cattolici sono veramente i buoni pastori di cui parla Gesù, pronti a dare la vita per le pecorelle, e non mercenari che abbandonano il gregge all’avvicinarsi del lupo, quali sempre si sono dimostrati i protestanti in Cina”.

"Celebrai 59 volte, sempre eludendo l’attenzione delle sentinelle, le quali più volte penetrarono improvvisamente in cella mentre celebravo, ma mai si accorsero che compivo l’atto più sacro che esista… La Messa celebrata in quelle condizioni, in un carcere dove i persecutori comunisti con un crescendo di menzogne e calunnie contro l’episcopato e il clero, specialmente straniero, con una lotta impetuosa e satanica per piegare i cristiani, accusati di tradimento e di connivenza con gli imperialisti, quella Messa, dico, aveva un riflesso di cielo: si era rientrati nelle catacombe”.

Il 28 luglio, Mons. Pollio fu ricondotto in tribunale, dove subì l’ultimo dei 22 processi dei primi quattro mesi di detenzione. Ad una domanda sui firmatari della riforma governativa, rispose: “Non nego di avere chiamati apostati quelli che hanno aderito al movimento per l’indipendenza della Chiesa…”.

Relativamente alla Legione di Maria (associazione approvata dalla Chiesa, nata a Dublino nel 1921 e istituita a Kaifeng da Mons. Pollio), il Presule dirà “essi istruivano i catecumeni, conducevano e assistevano i fanciulli in chiesa, visitavano gli ospedali, le carceri, gli ammalati a domicilio, battezzavano piccoli e grandi in pericolo di morte, visitavano i cristiani tiepidi riconducendoli al fervore… Il successo ottenuto fu consolantissimo e i frutti meravigliosi. Ma l’odio satanico di un governo comunista scagliò i suoi strali contro questa pia associazione, tanto benemerita e benedetta da Dio”.

Avevo conosciuto l’egoismo pagano, ma ora che mi trovavo nella tomba della libertà e in un periodo di persecuzioni assistevo ad angosciose tragedie: dove non brilla il Vangelo non vi sono che tenebre. I seguaci di Mao-Tse-tung asserviti a Mosca, vogliono distruggere l’amore, e vivono nell’odio e nella desolazione della morte. Dio solo è carità. I comunisti hanno scelto l’odio, perché il comunismo non è civiltà ma barbarie, la più grande barbarie della storia. Gli scopi che i comunisti si prefiggono di raggiungere nelle nazioni sotto il giogo rosso mirano principalmente a mutare l’uomo nella sua mentalità e personalità per poi cambiare la struttura sociale del paese. Quel terrore portò diffidenza vicendevole, ognuno diffidava dell’altro, il marito della moglie e la moglie del marito; i genitori temevano i figli, ma questi non temevano i genitori; i figli erano obbligati a denunciare i propri genitori se questi dicevano una sola parola non conforme ai principi ortodossi comunisti”.

In un librettino, dato dalle sentinelle per l’indottrinamento e trovato da Mons. Pollio, si leggeva questa frase di Lenin: “Tre quarti dell’umanità può morire, purché il rimanente quarto diventi comunista…”. Povero popolo cinese, in quali mani era caduto…

L’11 febbraio 1952 Mons. Pollio ritornò in Italia: “Sono in Patria, e pur sentendomi circondato da affetto e da stima, il mio cuore è rimasto laggiù; è rimasto a Kaifeng, cuore che piange sulle distruzioni, sulle chiese profanate, sulla sanguinosa bufera che ha travolto le nostre missioni mettendo a duro cimento i cristiani. Un’unica speranza mi sostiene nell’esilio, riprendere il cammino, varcare di nuovo i mari, ritornare laggiù a Kaifeng per vivere il resto della vita fino all’ultimo respiro per la ricostruzione della missione, per l’espansione del regno di Gesù”.

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A margine di questa memoria, come non levare lo sguardo – pietoso e orante – alla Chiesa che oggi è in Cina, stretta in una duplice ed inaudita morsa mortale, su cui sembra chinarsi sola, la figura del Card. Zen, inascoltato testimone di un martirio immane e silenzioso?

Come non ricordare – a proposito delle menzogne diplomatiche dichiarate – A. Solzenicyn, quando scrive in Arcipelago Gulag che la carta non si ribellava alla redazione delle condanne a morte? 

di Carmine Napolitano

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