mercoledì 6 maggio 2020

Si poteva fare come san Carlo Borromeo?

Forse si poteva fare qualcosa del genere. Certo sarebbe stata necessaria la volontà di cercare un modo per non privare i fedeli della Messa, dei sacramenti, dei funerali cristiani. E questa volontà - lo dicono i fatti - almeno ai vertici ecclesiali e civili non c'è, non c'era, non c'è mai stata.
Di seguito alcuni estratti, da un dotto articolo di Marco Rapetti Arrigoni pubblicato su Breviarium.eu.

Era il tempo della peste del 1576-77, che sta (ovviamente allora) al coronavirus come un cancro ai polmoni con metastasi sta all'asma.

Le chiese non furono chiuse, l'assistenza sacramentale fu incrementata, le processioni penitenziali si svolsero, e se il popolo non poteva andare alla Messa (fu chiuso in casa su richiesta dello stesso presule - ma era la peste, ripeto, d'allora, cioè senza rimedio alcuno se non la robustezza degli anticorpi naturali), fu la Messa ad andare al popolo.

Protagonista, san Carlo Borromeo.
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...parrebbe quasi che le ricostruzioni storicamente inaccurate di recente circolate abbiano risentito della nefasta influenza esercitata dalla pamphlettistica illuministica ed anticlericale del XVIII e del XIX secolo che, nel tentativo di imputare al campione ambrosiano della Riforma Cattolica la responsabilità della propagazione del contagio, aveva interesse a descrivere il Borromeo come totalmente incurante delle necessarie precauzioni sanitarie.

[...]

Per assistere spiritualmente gli infetti il Borromeo convocò sacerdoti e religiosi da tutta la diocesi, rivolgendosi in particolare ai chierici svizzeri, che avevano fama di non temere la peste, ed ottenne dall’Ayamonte che la direzione del lazzaretto fosse affidata a padre Paolo Bellintani ed ai cappuccini.
Andava in tutti i conventi, cercando padri et sacerdoti per questo servitio, et Iddio Benedetto gli dava gratia di trovare quasi quanti gliene bisognavano, et gli faceva venir in casa sua et quivi li tenea a sue spese.

Marcora, Il processo diocesano informativo sulla vita di San Carlo per la sua canonizzazione, in Memorie storiche della diocesi di Milano, vol. IX, Milano, 1962, p. 699
 [...]

Per impetrare da Dio la grazia della fine dell’epidemia San Carlo dispose lo svolgimento di quattro processioni alle quali avrebbero potuto prendere parte solo gli uomini adulti, divisi in due file di una sola persona e distanti l’una dall’altra circa tre metri, vietando la partecipazione degli infetti e dei sospetti di contagio. Il Borromeo guidò, a piedi scalzi e con una corda al collo, la prima processione dal Duomo fino alla Basilica di Sant’Ambrogio. Il 5 ottobre si svolse la seconda ed il giorno successivo San Carlo decise di portare in processione il Sacro Chiodo della croce di Cristo, conservato in un reliquiario posto nel semicatino absidale del Duomo a quaranta metri d’altezza sopra l’altare maggiore; in tale occasione l’Arcivescovo stabilì che
ogn’anno si portasse solennemente in processione et che stasse esposto sopra l’altare maggiore del domo per lo spacio di quarant’hore.

Marcora, Il processo diocesano…, Vol. IX, Milano, 1962, p. 229
 [...]

Poiché tali rinchiusi in quarantena «non potevano andare alle Chiese e ricevere | il frutto delle cose sacre», San Carlo dispose che ad ogni incrocio, in luoghi visibili dalla maggioranza delle case, fosse eretto un altare, che avrebbe costituito il basamento di una colonna sormontata da una croce (le cosiddette “crocette”), presso il quale celebrare le messe festive e feriali, cosicché i fedeli segregati potessero partecipare ai sacri riti dalle finestre delle loro abitazioni.
Per gli essercitii spirituali di questo tempo ordinò prima che ognuno sentisse Messa divotamente ogni dì; per il cui fece ergere molti Altari per le vie croci, e luoghi cospicui della Città, per dar comodità a tutti di sentir la Messa stando in casa propria.

Giussano, Vita di San Carlo Borromeo, Libro IV, Cap. VII, Brescia, 1613, p. 234
Ogni giorno i sacerdoti incaricati di recarsi presso le case dei reclusi in quarantena per confessare e comunicare i loro abitanti attraversavano le contrade portando un sedile di cuoio

et quelli che volevano confessarsi dimmandavano il sacerdote che passava dalle finestre, et esso si metteva con il suo scagno [sedile] alle porte, et venivano a basso a confessarsi, avendo per tramezzo l’anta della porta.
Marcora, Il processo diocesano…, vol. IX, Milano, 1962, p. 700

I fedeli che dopo avere celebrato il sacramento della Riconciliazione intendevano comunicarsi dovevano avere cura di collocare un piccolo tavolo fuori dalle porte delle loro case, in modo che i sacerdoti potessero sapere dove fermarsi. Per comunicare i reclusi ed evitare al contempo che il ministro stesso potesse divenire veicolo del contagio, secondo le norme emanate dall’Arcivescovo la particola doveva essere posta
 
in una lunetta de argento et senza tocare la bocha di quello che lo riceveva li comunicava etiam che fuseno in suspeto dil ditto malle.

Diario di Giambattista Casale (1534-1598), in Memorie storiche della diocesi di Milano, vol. XII, Milano, 1965, p. 302

San Carlo ordinò inoltre che i sacerdoti, una volta amministrata l’Eucaristia, dovessero passare il pollice e l’indice sopra la fiamma di una candela allo scopo di disinfettarle.

 [...]

Il Cardinale non smise mai di agire con grande prudenza e senso di responsabilità, non volendo che a causa sua o del clero diocesano i fedeli fossero esposti ad eventuale contagio o messi in pericolo in qualsivoglia modo.
Non ometteva però in nessuna occasione le necessarie cautele nè mettevasi a rischio senza necessità. Quando poi avea fatto qualche azione pericolosa di contagio, per sette giorni almeno astenevasi dal comunicare con altri, ed in tutto da se stesso servivasi, e ciò volea che si facesse ancora dagli altri sacerdoti e curati. 

Sala, Biografia di San Carlo Borromeo, Milano, 1858, p. 71

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